Mostra – Internati Militari Italiani nei lager nazisti – Bitonto (Bari)

La mostra, a cura di Mimmo Ciocia e Laura Fano, allestita a Bitonto (BA) presso l’Aula Magna dell’ I.T.T.S. “Alessandro Volta”, ripercorre la vicenda degli IMI dalla cattura al ritorno a casa, utilizzando materiali dell’epoca, proposti nella loro integrità e forza documentaria: fotografie scattate nei campi da prigionieri consapevoli che, con quel gesto, stavano rischiando la morte; pagine di diari scritti nelle baracche; frammenti di lettere spedite dai campi ai familiari; piccoli oggetti, documenti, disegni, reliquie laiche e religiose di quella lunga stagione di sofferenza.

La mostra, a partire dal 20 gennaio fino al 30 gennaio 2016, sarà liberamente  aperta al pubblico e alle scuole secondarie in orario scolastico, dalle ore 8.30 alle ore 12.30. L’iniziativa scolastica ottempera al progetto comunale “Memento: ricorda, conosci, medita, impara”, finalizzato a sensibilizzare soprattutto le giovani generazioni affinché attraverso il ricordo, la conoscenza la riflessione sugli eventi accaduti sappiano prevenire il ripetersi di simili follie.

Nella mattinata del 27 gennaio in occasione della giornata della memoria presso il Cinema Coviello di Bitonto Laura Fano terrà un intervento dal Titolo ” Gli Internati Militari Italiani, ragioni di una rimozione intellettuale di massa“.

L’8 Settembre 1943 fu lo sfacelo totale dello Stato Italiano, ma anche la disgregazione dell’esercito.

Il fascismo era caduto alla fine del mese di luglio e ne restavano le gravi e pesanti conseguenze. Una guerra rovinosa, non sentita, né voluta, dalla quale era difficile uscire, tanto sospettosi e vigilanti erano i nostri “imposti” alleati, e così incuneate e intrecciate le loro truppe dentro i gangli stessi dei nostri reparti. Un’astuta manovra che si era sviluppata più rapida negli ultimi mesi, gabellandosi come soccorso fraterno dopo la caduta della Sicilia.

Il Generale Badoglio, che presiedeva il Governo, annunciò la fine delle ostilità contro gli Anglo-Americani, ma le Forze Armate che nella lunga e disastrosa guerra voluta dal nazifascismo si erano battute su tanti fronti con estremo valore – nonostante nobili sparsi episodi di resistenza e memorabili sacrifici di sangue- rimasero quasi ovunque senza precise disposizioni davanti al rovesciamento delle alleanze e si sgretolarono. Attanagliate dalle forze tedesche abilmente dislocate sullo scacchiere europeo, prive di sufficienti armamenti, chiamate improvvisamente a mutare nemico da un proclama tanto infelice quanto ambiguo, caddero nel giro di pochi giorni prigioniere dei tedeschi, gli alleati di ieri che improvvisamente diventavano il nemico.

L’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre e il caos che ne seguì si fissarono con particolare nitidezza nella memoria dei soldati italiani e delle loro famiglie.

Per centinaia di migliaia di soldati catturati dai tedeschi cominciò allora una lunga e sofferta “odissea”. Nelle angosciose giornate che seguono la resa la famiglia Reale fugge, col Governo, da Roma a Brindisi; mancano i collegamenti, i Comandi si polverizzano, solo pochi riescono a rifugiarsi sui monti o a darsi alla macchia.  Dove erano giunti ordini abbastanza chiari o dove i Comandanti, d’iniziativa, avevano sopperito con il loro senso di responsabilità, si era combattuto contro i nazisti, con poca fortuna. Dalle isole Egee alla Corsica, quei giorni di Settembre avevano visto episodi di audacia, di valore indomito e disperato, spesso vano come a Lero e Cefalonia. Per tutti gli altri il destino fu la deportazione in massa nei lager del terzo Reich dove divennero “Schiavi di Hitler”.

Lunghi convogli insaccarono allora in vagoni piombati miglia e migliaia di soldati e ufficiali, li trascinarono per giorni e giorni, fino ai lontani lager dislocati in tutta l’Europa, affamati, maltrattati avviliti. I campi di concentramento nazisti , chiusi da reticolati, sorvegliati da alte torrette, imprigionarono oltre 750.000 italiani. Furono classificati dai nazisti Internati Militari Italiani (I.M.I.) e privati dalle tutele previste dalla Convenzione di Ginevra per i prigionieri di guerra.

Gli accordi tra i due dittatori Hitler e Mussolini resero ancora più dura la loro prigionia: non ebbero alcuna protezione o aiuto dalla Croce Rossa Internazionale, soffrirono il freddo di rigidissimi inverni, i più acuti morsi della fame e le sevizie. I soldati furono adibiti ai lavori nelle miniere, nelle fabbriche, nelle officine, nei campi, piegati a fatiche durissime senza sostegno di sufficiente alimentazione. Gli ufficiali rifiutarono in massa il lavoro, finché fu possibile…

Deportati, più che prigionieri, in gran parte privi delle notizie dalle famiglie, trascorsero lunghi mesi tra sofferenze fisiche e tormenti morali, sapendo le loro città occupate da eserciti stranieri, teatro di combattimenti, persecuzioni, violenze, la Patria divisa in due tronconi; i propri cari in pericolo. Cinquantamila di loro morirono in prigionia o immediatamente dopo a causa degli stenti, delle malattie o dei maltrattamenti subiti. La stragrande maggioranza rifiutò di tornare a combattere al fianco dei tedeschi o per l’Italia di Salò, e tale rifiuto divenne, di fatto, uno dei primi atti della Resistenza al nazifascismo.

Una resistenza muta, silenziosa che si protrasse per 19 lunghi mesi. Il loro ritorno in Patria fu molto difficile e doloroso. La loro esperienza, troppo complicata e lontana dagli schemi di una storia di eroi, passò sotto il silenzio.

La sorte riservata a circa 750.000 militar italiani, fatti prigionieri dai tedeschi nei turbolenti giorni successivi all’8 settembre 1943, è stata per molti decenni completamente rimossa dalla memoria collettiva. Al massimo, una specie di “storia minore, meritevole di qualche riconoscimento, ma non di attenzione autentica né di ricerche sistematiche”.

Nel dopoguerra i reduci erano troppi e troppo diversi. L’Italia postbellica aveva solo voglia di dimenticare e di ricominciare a vivere. I reduci furono quindi dimenticati.

Non importava a nessuno che oltre mezzo milione di soldati e ufficiali – avanguardia imponente e tragica delle schiere dei “politici”, degli Ebrei, dei civili rastrellati per rappresaglia in tutta la Penisola – avesse rifiutato di collaborare con i nazifascisti, preferendo la fame, il lavoro forzato e in numerosi casi la morte. L’Italia della ricostruzione e dello sviluppo industriale aveva troppo da fare e altre mete più fascinose da inseguire per ricordarsi degli IMI. Così accadde che quel dramma collettivo finì nell’oblio.

Vincitori e vinti, come osserva Giogio Rochat, non amano ricordare i prigionieri di guerra, testimoni scomodi di oscure vicende mortificanti e soprusi.

Ma gli Internati militari non sono da considerare “vinti” perché optarono individualmente e volontariamente per la “Via del Lager” senza barattare il ritorno a casa con una comoda ma disonorevole libertà: e a guerra finita, in un contesto di ignoranza e incomprensione si chiusero in un silenzioso riserbo consci del valore del proprio comportamento e dignitoso decoro. Né quanti avrebbero potuto e dovuto farlo aprirono con loro un dialogo chiarificatore.

La Puglia ha voluto ricordare, in occasione del mese dedicato alla Memoria, questo importante capitolo della nostra Storia con una mostra dedicata ad una delle pagine più nobili e generose della resistenza italiana.

 

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